lunedì 27 luglio 2009

Mr. Tales Coffee - terza puntata


Riassunto delle puntate precedenti: Chiamatemi Miles. Il vecchio Stan è stato affogato nel vino rosso e rischio anch’io di fare la sua fine. Vendo il vino avariato per 300 dollari e, grazie a Nat il benzinaio, riesco a trovare Mr. Tales Coffee, l’unica persona in grado di aiutarmi, nella torrefazione di Susie-Anne Allchantilly: pedicure sotto mentite spoglie, segretamente innamorata di me. Giungono Sym, Sala e Bim, killers prezzolati, esecutori dell’omicidio di Stan. La presenza di Mr. Coffee li mette in fuga, io ho bisogno del bagno e lui me lo indica per 300 dollari.




Uscii dal bagno un quarto d’ora dopo con le idee più chiare e le mutande più scure. Eh, sì, troppo tardi! Mr. Coffee era già uscito e Susie-Anne, nel retrobottega, stava praticando una complessa onicotomia ad un nuovo cliente.


Di una cosa potevo essere certo ora: in futuro avrei potuto avvicinare Tales Coffee per una nuova richiesta senza rischiare di essere ucciso a priori. Le cose si erano messe decisamente bene.


Lasciai un biglietto per Susie-Anne e uscii dalla torrefazione guardingo.


“Dimenticami, SusannaTuttaPanna! Dolcetto del mio caffè, ciliegina sulla torta del mattino! Non c’è futuro per noi” ci avevo scritto bagnandolo copiosamente di lacrime.


Bisogna saper essere veri uomini quando serve.



Se c’è una cosa che il vecchio Stan riconosceva in me, è lo spiccato senso per gli affari, pensai avviando il poderoso otto cilindri della fida Chevy.


Io capisco al volo quanto può valere un affare e quanto bisogna pagare per realizzarlo.


Per la mia prossima richiesta a Mr. Tales Coffee ci sarebbero voluti trentamila dollaroni, non uno di meno, ma avrei definitivamente risolto i miei guai per il futuro, e finalmente vendicato il vecchio Stan.


Poco prima, nel preciso momento in cui ero uscito da quel cesso maleodorante, svuotato nell’animo e non solo, percepivo già, come per un sesto senso, chi era stato il bieco mandante dell’omicidio del mio ottimo socio. E perché l’aveva fatto.


Ma prima di scatenargli la belva alle sue luride calcagna (e a quelle bislacche di quel trio di sgangherati killers), avrei dovuto trovare le prove.


Prove inconfutabili. Prove certe.


Ah, già!... Dimenticavo, e trentamila dollari.

Quindi andai da Nat, ancora una volta. Avevo un conto in sospeso da regolare con lui… per quella sporca soffiata che aveva fatto: mi aveva venduto al trio “Houdini”, così, al primo colpo! L’avrebbe pagata cara!

“Mi devi duecentosessanta sette dollari e trentadue cents! Sono sette pieni, gran figlio di una puttana gonorroica!” disse lui. Sembrava un filo alterato, ma non poteva esagerare, pensai tra me e me.

“Cut’vegna un colp!” risposi, alzando la voce e spadroneggiando in romagnolo com’ero solito fare con lui “Sei tu che mi devi pagare, lurida spia!” e aggiunsi: “So tutto della tua sporca soffiata! Dammi subito trentamila dollari!!!”

Nat sgranò gli occhi, diventò tutto rosso in faccia e mi stese con un pugno, facendomi, tra l’altro, volare un dente.

Quando riaprii gli occhi appresi benevolmente che aveva bisogno di un nuovo lavamacchine dopo che aveva mandato all’ospedale il precedente. Gli aveva rubato seicentonovantaquattro pelli di daino, durante il suo periodo non violento religioso.

“Per fare molti soldi, bisogna cominciare sempre dal basso! Ricordatelo figliolo!” diceva mio nonno. Ora, essere costretto a lavare macchine per Nat, poteva rappresentare un ottimo inizio! Un giorno avrei potuto restituirgli i suoi fottuti dollari per la benzina, raggranellare i trentamila di cui avevo bisogno per Coffee, e pagarmi un dentista.


Sulla conversione improvvisa di Nat, rimaneva un fitto mistero insolubile. Alle mie domande in merito non rispondeva, ma cominciava a guardarmi di brutto. Quindi, visto i trascorsi odontoiatrici, glissavo con classe.


Però lui non era poi male: mi permetteva di indossare sul lavoro il mio ineffabile travestimento da albino, per poter sfuggire al trio Sym Sala Bim sguinzagliato ormai sulle mie tracce. E aveva anche accettato di nascondere la mia Chevy nel vecchio capannone della Gas Station. Ci aveva pure cambiato l'olio!


Praticamente ero in una botte di ferro!


(continua…. Giggle… giggle… :P)

venerdì 17 luglio 2009

La neve sul mare

Aveva ricominciato a nevicare all’alba.


Halia aveva sentito arrivare dal mare quell’odore estraneo, e i suoi occhi avevano visto, nel primo chiarore del giorno, quella assurda distesa.
Allora aveva spiccato il volo, e si era diretto verso il largo.

Passa il tempo, e il sole ora è più alto, dietro lo spesso strato di nuvole. Halia è un esemplare maschio adulto di aquila di mare dalla testa bianca, è stanco e affamato, ed avanza lentamente, tracciando la sua rotta contro le sferzate gelide del vento e della neve.
Punta a ovest: sa che così sarà più facile tornare, dopo essersi saziato. Avrà il vento a favore. Vola alto.

Riappare finalmente, sotto di lui, il mare. Ma ha un colore strano, e troppi uccelli marini, laggiù, schiamazzando, vi si tuffano affamati.
L’aquila ha la vista acuta, e presto si accorge che, dopo essersi tuffati, molti di loro non si rialzano più in volo. Rimangono nell’acqua a sbattere le ali a lungo, fino a sfinirsi.

Allora decide che continuerà a volare controvento, anche se è ormai allo stremo delle forze, fino e oltre il punto di non ritorno.
Halia vuole ritrovare un mare pulito, e salmoni da mangiare, com’era sempre stato dall’inizio dei tempi, sino a quell’alba.


“Risalire e respirare. Sembrava cosa normale, ma oggi non è.
Mi è arrivato invece, sopra la testa, quello strato scuro come di nubi in cielo prima di tempesta. Ma tempesta non è. E in cielo non è.
E’ una cosa malata che sta sopra il mare. La sento. E là che mi attende, dove dovrò risalire.
Io non so rintanarmi qua sotto, come pesce, per andare lontano.
Né rifugiarmi a terra, come foca o lontra, a trovare illusoria salvezza.
Né volare lontano come uccello di mare.
Nella mia candida vita, tra le prede, io dispensai il terrore.
E’ giunto il momento di sapere.”

Orux, giovane femmina adulta di orca, non poté resistere a lungo, e, malgrado sentisse un presagio di morte provenire dalla superficie, il bisogno di respirare prevalse in lei, e si costrinse ad affiorare.
Soffiò l’aria trattenuta da ormai più di venti minuti nei polmoni, in una colonna di vapore bianco nell’aria gelida del mattino e provò a inspirare cautamente.
Lo sfiatatoio si intasò subito e la poca aria inalata era tossica. Piccole gocce di veleno penetrarono nei bronchi che subito si contrassero in un ancestrale spasmo di difesa. Soffiò di nuovo forte per liberarsi e si immerse nuovamente.
Negli angosciosi minuti seguenti lei capì che era finita, e che qualcosa lassù si frapponeva tra l’acqua e l’aria.
Era innaturale e sinistra, vischiosa e letale, e l’avrebbe uccisa.
La sua apnea questa volta durò poco e lei presto fu costretta ad emergere di nuovo.
Disperatamente affamata d’aria, questa volta inspirò con forza, e conobbe il terrore.


I piccoli vi si erano gettati dentro senza alcun timore. Con il solito entusiasmo e la curiosità di ogni giorno, senza badare ai richiami delle madri allarmate. E poco dopo anch’esse li seguirono, vinta la paura, andandogli in soccorso.

Questa volta non era il cacciatore eschimese dal bastone letale, né l’orca possente, e nemmeno lo squalo dalle molte fila di denti.
Erigh sentì che la morte si proponeva sotto un aspetto nuovo, che lui non aveva mai sperimentato in tutta la sua lunga esistenza.
Si trattenne sulle alte rocce, vecchio maschio di foca spaventato, ed emise un lugubre lamento rivolto al grigiore di quell’alba, e a quella neve, che scendeva fitta.

Gli esemplari che tornavano a terra erano ricoperti da uno strato maleodorante che mascherava il loro vero odore. Venivano evitati, o a volte aggrediti, perché non più riconosciuti come membri del branco.
Le ore passavano e la fame cresceva tra la moltitudine di foche barbate. Occorreva entrare in mare per cercare il cibo, malgrado quella cosa che ripugnava.

Erigh li osservò, uno ad uno, entrare in quel mare fatto veleno.
Rimase sulle rocce levigate, il più in alto possibile, isolato.
Decise che per lui non sarebbe più stato il tempo di nutrirsi.


La giornata è trascorsa, e ora manca poco al tramonto.

Il giovane Norman, in piedi, osserva Knud, il vecchio pescatore, dondolare piano sotto la tormenta, mentre, spinto dal vento gelido dell’Artico, gira pigramente su sé stesso, tutto coperto di neve.

I candidi fiocchi hanno appesantito il tetto della sua capanna, e sepolto la sua barca, alata in secco. Ammantano la pianura, la strada, la spiaggia poco distante.

Oggi nascondono anche il mare, avendo formato un leggero strato irreale, che ondeggia piano, galleggiando.

Non è mare ghiacciato, è neve che galleggia sopra il mare: l’impossibile che prende forma.

Norman non aveva mai visto questa cosa.

Il ragazzo, immobile, pensa alla fine del mondo, o che almeno tutto ciò deve assomigliargli un poco.
Poi lo percorre un brivido, estrae il coltello da pesca, e comincia a segare la corda ghiacciata che trattiene il corpo di suo nonno.

All’alba, l’eschimese Knud, aveva visto formarsi, sotto la tormenta di neve, quella coltre bianca che fluttuava, inconcepibile, sulle flebili onde di un mare che era diventato nero.

Quel manto immacolato stava ricoprendo, con i suoi candidi fiocchi, undici milioni di galloni di petrolio greggio, reso denso dal gelo, che galleggiava sul mare e inondava la costa.
Come un pietoso sudario, la neve occultava l’immane catastrofe, e le centinaia di migliaia di animali marini, morti o agonizzanti.

Il vecchio Knud, troppo stanco per guardare oltre, si era impiccato, davanti alla sua casa, sulle ultime propaggini della cittadina di Valdez, in fondo al Prince William Sound, in Alaska, quella mattina, sul finire di marzo.























Immagine tratta da: http://symonsez.wordpress.com