venerdì 17 luglio 2009

La neve sul mare

Aveva ricominciato a nevicare all’alba.


Halia aveva sentito arrivare dal mare quell’odore estraneo, e i suoi occhi avevano visto, nel primo chiarore del giorno, quella assurda distesa.
Allora aveva spiccato il volo, e si era diretto verso il largo.

Passa il tempo, e il sole ora è più alto, dietro lo spesso strato di nuvole. Halia è un esemplare maschio adulto di aquila di mare dalla testa bianca, è stanco e affamato, ed avanza lentamente, tracciando la sua rotta contro le sferzate gelide del vento e della neve.
Punta a ovest: sa che così sarà più facile tornare, dopo essersi saziato. Avrà il vento a favore. Vola alto.

Riappare finalmente, sotto di lui, il mare. Ma ha un colore strano, e troppi uccelli marini, laggiù, schiamazzando, vi si tuffano affamati.
L’aquila ha la vista acuta, e presto si accorge che, dopo essersi tuffati, molti di loro non si rialzano più in volo. Rimangono nell’acqua a sbattere le ali a lungo, fino a sfinirsi.

Allora decide che continuerà a volare controvento, anche se è ormai allo stremo delle forze, fino e oltre il punto di non ritorno.
Halia vuole ritrovare un mare pulito, e salmoni da mangiare, com’era sempre stato dall’inizio dei tempi, sino a quell’alba.


“Risalire e respirare. Sembrava cosa normale, ma oggi non è.
Mi è arrivato invece, sopra la testa, quello strato scuro come di nubi in cielo prima di tempesta. Ma tempesta non è. E in cielo non è.
E’ una cosa malata che sta sopra il mare. La sento. E là che mi attende, dove dovrò risalire.
Io non so rintanarmi qua sotto, come pesce, per andare lontano.
Né rifugiarmi a terra, come foca o lontra, a trovare illusoria salvezza.
Né volare lontano come uccello di mare.
Nella mia candida vita, tra le prede, io dispensai il terrore.
E’ giunto il momento di sapere.”

Orux, giovane femmina adulta di orca, non poté resistere a lungo, e, malgrado sentisse un presagio di morte provenire dalla superficie, il bisogno di respirare prevalse in lei, e si costrinse ad affiorare.
Soffiò l’aria trattenuta da ormai più di venti minuti nei polmoni, in una colonna di vapore bianco nell’aria gelida del mattino e provò a inspirare cautamente.
Lo sfiatatoio si intasò subito e la poca aria inalata era tossica. Piccole gocce di veleno penetrarono nei bronchi che subito si contrassero in un ancestrale spasmo di difesa. Soffiò di nuovo forte per liberarsi e si immerse nuovamente.
Negli angosciosi minuti seguenti lei capì che era finita, e che qualcosa lassù si frapponeva tra l’acqua e l’aria.
Era innaturale e sinistra, vischiosa e letale, e l’avrebbe uccisa.
La sua apnea questa volta durò poco e lei presto fu costretta ad emergere di nuovo.
Disperatamente affamata d’aria, questa volta inspirò con forza, e conobbe il terrore.


I piccoli vi si erano gettati dentro senza alcun timore. Con il solito entusiasmo e la curiosità di ogni giorno, senza badare ai richiami delle madri allarmate. E poco dopo anch’esse li seguirono, vinta la paura, andandogli in soccorso.

Questa volta non era il cacciatore eschimese dal bastone letale, né l’orca possente, e nemmeno lo squalo dalle molte fila di denti.
Erigh sentì che la morte si proponeva sotto un aspetto nuovo, che lui non aveva mai sperimentato in tutta la sua lunga esistenza.
Si trattenne sulle alte rocce, vecchio maschio di foca spaventato, ed emise un lugubre lamento rivolto al grigiore di quell’alba, e a quella neve, che scendeva fitta.

Gli esemplari che tornavano a terra erano ricoperti da uno strato maleodorante che mascherava il loro vero odore. Venivano evitati, o a volte aggrediti, perché non più riconosciuti come membri del branco.
Le ore passavano e la fame cresceva tra la moltitudine di foche barbate. Occorreva entrare in mare per cercare il cibo, malgrado quella cosa che ripugnava.

Erigh li osservò, uno ad uno, entrare in quel mare fatto veleno.
Rimase sulle rocce levigate, il più in alto possibile, isolato.
Decise che per lui non sarebbe più stato il tempo di nutrirsi.


La giornata è trascorsa, e ora manca poco al tramonto.

Il giovane Norman, in piedi, osserva Knud, il vecchio pescatore, dondolare piano sotto la tormenta, mentre, spinto dal vento gelido dell’Artico, gira pigramente su sé stesso, tutto coperto di neve.

I candidi fiocchi hanno appesantito il tetto della sua capanna, e sepolto la sua barca, alata in secco. Ammantano la pianura, la strada, la spiaggia poco distante.

Oggi nascondono anche il mare, avendo formato un leggero strato irreale, che ondeggia piano, galleggiando.

Non è mare ghiacciato, è neve che galleggia sopra il mare: l’impossibile che prende forma.

Norman non aveva mai visto questa cosa.

Il ragazzo, immobile, pensa alla fine del mondo, o che almeno tutto ciò deve assomigliargli un poco.
Poi lo percorre un brivido, estrae il coltello da pesca, e comincia a segare la corda ghiacciata che trattiene il corpo di suo nonno.

All’alba, l’eschimese Knud, aveva visto formarsi, sotto la tormenta di neve, quella coltre bianca che fluttuava, inconcepibile, sulle flebili onde di un mare che era diventato nero.

Quel manto immacolato stava ricoprendo, con i suoi candidi fiocchi, undici milioni di galloni di petrolio greggio, reso denso dal gelo, che galleggiava sul mare e inondava la costa.
Come un pietoso sudario, la neve occultava l’immane catastrofe, e le centinaia di migliaia di animali marini, morti o agonizzanti.

Il vecchio Knud, troppo stanco per guardare oltre, si era impiccato, davanti alla sua casa, sulle ultime propaggini della cittadina di Valdez, in fondo al Prince William Sound, in Alaska, quella mattina, sul finire di marzo.























Immagine tratta da: http://symonsez.wordpress.com

5 commenti:

Anonimo ha detto...

E' stato un piacere ospitare il tuo racconto nel mio blog. Non l'ho ancora letto (purtroppo) ma domani rimedio alla mia "mancanza" e poi ti dico.
Immaginavo che per te non fosse troppo semplice collegarti ad una WiFi ogni volta che vuoi!
Ti auguro un buon inizio settimana.
A presto.
Bianca

roz ha detto...

storia intessuta di un forte senso di impotenza, anche se cela forse una rabbia profonda, mi è piaciuto il punto di vista degli animali, soprattutto di Halia...

Milo ha detto...

Grazie Roz per aver letto una mia storia. Impotenza sì, e orrore soprattutto.
Molti furono i suicidi in Alaska tra le popolazioni eschimesi ed aleutine in seguito all'"incidente" Exxon Valdez, al quale la storia, anche se di pura fantasia, fa riferimento.
Rabbia sì, certo, va da sé, ma non è il sentimento dominante della storia.
Lo è l'orrore.
Mi è piaciuto molto il tuo commento!
Alla prossima!
:)

Annalisa Silingardi ha detto...

,,,anche a me pace qundo interpreti le voce ed il pensiero dei tuoi personaggi,,,ma oltre l'orrore il disagio dellì'impotenza è devastante,,,bravo

Milo ha detto...

@ annalisa: grazie!^___^
Quella brutta storia risalente al1989 mi colpì molto.
Fu allora che mi sensibilizzai al problema.
Abbastanza tardi, considerando che avevo già trent'anni e quello non fu certo il primo disastro ecologico.
Meglio tardi che mai... ;)
Un abbraccio!
^_____^